La comunità e le relazioni. E’ stato il tema dell’ultimo degli “Incontri nel chiostro” che abbiamo organizzato con gli amici del Circolo Acli Medio Chiese a Gavardo. Riflessioni interessanti di Ivo Lizzola e don Fabio Corazzina che ho ripreso in mano in questi giorni. Molto attuali. Provo a riportare una sintesi disordinata degli spunti più interessanti, con qualche considerazione finale.
Essere comunità significa avere un progetto comune. Sapere che non abbiamo solo una vita privata, ma anche una vita comune con altre persone. Che a volte si affidano a noi. E a volte siamo noi che ci affidiamo a loro. Nella consapevolezza di essere tutti fragili. E serve che si riconosca questa vita comune che ci lega gli uni agli altri. La comunità non può essere statica, alla ricerca della riproposizione di regole e abitudini del passato, per cercare di creare una falsa identità, che invece deve crescere nell’avere un sogno comune per il futuro. Oggi invece ci pensiamo separati dagli altri. In una società divisa tra coloro che meritano e coloro che non meritano. Pensiamo di essere creditori verso la società, non debitori. Siamo in un tempo d’esodo, di attraversamento e di cambiamento. E in questo tempo per fare comunità bisogna costruire l’evidenza del valore della prossimità, del fatto che si è gli uni gli altri profondamente legati, debitori verso l’altro. Posso sperare nel futuro solo se possiamo contare l’uno sull’altro. Questo vuol dire non aver paura di essere fragili. Si scopre la vita comune come ciò che dà gusto all’esistenza, e ciò che risponde ai bisogni. Ma l’esodo è esperienza di libertà. Mi libero se ho uno sguardo nuovo, diverso. Spesso invece lo sguardo delle nostre comunità è negativo, incapace di vedere le positività. C’è una grande solitudine, anche spirituale e sociale. Eppure le persone hanno il bisogno di partecipare. E il “noi” uno se lo cerca. Spesso in modo sbagliato, appoggiandosi a delle appartenenze che sono identitarie (fatte di conservazione e tradizione) ma che non mettono al centro la persona. Allora il problema è la trasformazione della comunità in “io collettivo”. E non in uno spazio di incontro, dove prevalga lo sguardo fraterno. Serve cambiare lo sguardo verso gli altri, in modo che ognuno riesca a vedere la sua possibile attivazione come elemento generatore. Mentre prima si vedevano solo preoccupazioni e bisogni. La nuova prospettiva (in questo esodo) è lo stare dentro i problemi senza vittimizzarci, essendo risorsa anche da fragili. Con scambi tra persone che hanno fragilità diverse. E che così facendo costruiscono identità che hanno la necessità di incontrare, non di difendersi. Perché sono le identità fragili che hanno bisogno di sentirsi difese. Le identità ben costituite non ne hanno bisogno. Le identità forti non hanno problemi a incontrare l’altro. Anzi… ne hanno bisogno per capire la storia dell’altro. Non si va da nessuna parte se si continua a incontrare se stessi e i vicini. Non si cresce, ma si replica. Non si genera.
Apparentemente sembrano riflessioni molto astratte. Invece sono molto concrete, e ci interrogano su come viviamo il nostro essere parte di una comunità. E si scoprono tante piccole esperienze e modalità che riescono a essere generative. Che cercano di creare e costruire un “noi”, disegnando scenari di futuro. Di chi vive la sua relazione con l’altro e con la comunità nella prospettiva di poter essere una risorsa, nell’ottica di aiutarsi e sostenersi reciprocamente nelle fragilità (e potenzialità) che tutti abbiamo. Peccato che molti invece intendano la comunità come occasione per emergere e per ergersi continuamente a giudici che hanno già capito tutto. Pretendendo solo di ricevere e mai dando nulla agli altri. Per chiudersi al diverso e a chi è più fragile in nome di una presunta e arrogante superiorità e autosufficienza. Ma siamo in un tempo di esodo, cioè di cambiamento e di passaggio. E sono i generativi coloro che sapranno indicare la strada del futuro.
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